Erasmus+ Lab Aberto Fablab 2
ERASMUS +
REPORT MOBILITA’ - Domenico Amoroso
dal 14/07/2022 al 17/07/2022
Hosting organization: Lab Aberto Fablab - Portogallo
Progetto 2021-1-IT02-KA122-ADU-000020427
Il viaggio, l’arrivo.
Partito da Novara, arrivo nella cittadina portoghese di Torres Vedras, non molto distante dalla metropolitana capitale Lisbona, non molto distante dalle sabbiose coste oceaniche, non molto distante dalle rigogliose colline del vino portoghese. Una cittadina che, per quanto molto geograficamente diversa dalla mia patria, come Novara soffre il non avere una forte identità: due città di confine, ma senza un netto confine. Entrambe sgomitano per creare uno spazio comodo nel quale stare e non essere più quelle vicina a; quelle che conoscono chi; quelle dove non succede mai nulla e devi sempre andare altrove per fare qualcosa.
A Torres Vedras stanno tentando e riuscendo grazie alla forte cooperazione di tre attori/fattori: la spinta politica della nuova sindaca che sta dando una sferzata di innovazione, dedizione e cura del territorio, valorizzando tutte le sue sfaccettature; la presenza di un'importante scuola secondaria [Esc. Sec. Henriques Nogueira] tanto innovativa e attenta alla sua utenza da aver istituito un fablab all’interno della sua moderna struttura, composta non solo da aule e laboratori, ma anche da una biblioteca all’avanguardia sul tema dell’inclusione con una sezione dedicata alla letteratura in Braille, dalle sue piccole attività commerciali interne [caffetteria e cartoleria] dove è possibile acquistare beni e prodotti a basso costo mediante una carta prepagata, caricata dallo stesso istituto scolastico in caso di famiglie poco abbienti, e da uno strutturato e consolidato sistema Erasmus per ampliare le esperienze e distruggere i confini degli studenti; ultimo, ma non per importanza, il Lab Aberto, il fablab che è riuscito a invertire il normale andamento al quale siamo costretti a causa dei forti interessi economici che spesso, troppo spesso, influenzano la nostra vita, le nostre città, il nostro territorio e la nostra cultura. Il Lab Aberto è riuscito nell’impresa eroica di convertire uno spazio commerciale nel cuore di Torres Vedras in uno spazio di scambio e sviluppo culturale, sia analogico sia digitale.
“From market to maker”.
Torres Vedras è nei sampietrini color della sabbia, lisci e lucidi tanto da specchiare il sole cocente. Le sue strade sono costruite per assecondare i continui sali e scendi caratteristici dell’orografia locale, restituendo la perfetta e immortale rappresentazione delle dune sabbiose della vicina costa oceanica, con la differenza che tra le sue vie il vento non solleva nuvole di sabbia e onde giganti ideali per il surf, ma dona rinfrescante sollievo a coloro che le battono. Le facciate dei suoi edifici sono in calce altrettanto chiara, con magnifiche interruzioni della candida monotonia a favore di porzioni di facciate piastrellate dalle più fantasiose grafiche geometriche, rigorosamente in toni di azzurro e verde. Il rumore delle onde dell’oceano e il sapore della salsedine sono lontani chilometri, eppure i colori della città continuano a richiamarli, come una eco che dalla costa ha raggiunto l’entroterra portoghese, udibile in tutta la sua forma e forza.
In questo viaggio, soggiornando tra le architetture di Torres Vedras, spaziando nella sua cultura culinaria, godendo dell’accoglienza e dell’ospitalità dei suoi abitanti e indagando sulle loro espressioni culturali, ho scoperto e ritrovato questo fortissimo legame, più che in altre popolazioni del mediterraneo. Non solo l’economia locale è imprescindibilmente legata al mare, lo sono anche i portoghesi, in particolare quelli che vivono Torres Vedras: “Não é minha praia” [non è la mia spiaggia], questa è l’espressione che utilizzano per manifestare profondo disinteresse da qualcosa e che allo stesso tempo rivela il loro primitivo legame con l’oceano.
L’idea, il boot camp.
Credo di poter semplicemente, ma non banalmente, riassumere la mia esperienza del boot camp in quel di Torres Vedras presso lo spazio fablab Lab Aberto, con il racconto del progetto al quale ho partecipato attivamente: la riproduzione in scala reale della statua di Nelson Mandela mediante l’assemblaggio di pezzi stampati con la stampante 3D.
Così come i diversi componenti necessari a formare la statua provenivano da diversi parti del mondo, compresi i tre portati dalla nostra delegazione, anche il boot camp era formato da persone e personaggi provenienti da diversi punti del globo, con le loro esperienze, con la loro formazione professionale e con la loro cultura personale.
Il boot camp, come la statua, si è realizzato grazie all’incastro di tutti questi differenti componenti; alcuni più solidi, con più struttura al loro interno, alcuni più fragili perché ancora in fase di formazione del loro proprio io; molti accomunati dal colore, dalle esperienze e dalla fibra che li costituisce, altri fuori dagli schemi, di un colore mai visto in precedenza e che a primo impatto sembrerebbe stonare con il resto della paletta cromatica, ma che alla fine, una volta trovati gli incastri più corretti e il miglior metodo di comunicazione con le componenti a lui vicine, riesce a trovare il modo giusto di cooperare alla formazione e delineazione della figura finale voluta.
Tutto è partito da una call internazionale; la stessa, utilizzata per raccogliere le adesioni al boot camp, è stata usata per far partecipare tutti alla costruzione della statua, anche se in maniera indiretta e non attiva; una costruzione sociale dove chi ha voluto, ha avuto l’opportunità di partecipare come e quanto poteva.
Da non mettere in secondo piano le diverse pillole di esperienza che ho potuto “assumere” durante le diverse giornate: momenti creativi, sia teorici sia manuali, possibili grazie alla vasta proposta di makers e relatori ospitati durante il boot camp.
Nuria, dal fablab Leon spagnolo, ha mostrato come sia possibile creare qualcosa di altamente tecnologico alla portata di tutti, riuscendo a concentrare una vera e propria esperienza da maker in un kit grande quanto una bustina in plastica per cartoline. Dentro vi ha messo tutto il necessario per creare un piccolo mostriciattolo in feltro, con un occhio luminoso che cambia colore in base alla pressione che si esercita sulla pancia dello stesso. Nessuna saldatrice, nessuna scheda madre, nessun cavo, nessun codice o complicatissime istruzioni. Strumenti ai più familiari, ago e filo; passaggi di cucitura facilitata e preformata mediante il taglio laser, a portata di tutti; nastro adesivo conduttore, una batteria, un led e del velostat [un semplice materiale conduttore tagliabile con forbici].
Nel fablab della scuola, hanno mostrato come le nuove tecniche di stampa 3D possono essere integrate per la didattica verso persone con bisogni educativi differenti. Il teorema di Pitagora, le delimitazioni regolari di un campo da gioco e alcuni insetti, sono diventati dei modellini sensoriale per persone ipovedenti o cieche, per dar modo loro di toccare la realtà delle cose e non solo immaginarla in seguito a una descrizione orale.
Luis, un maker, ha mostrato come sia possibile creare qualcosa di nuovo da qualcosa di vecchio, riuscendo a riciclare la plastica di una qualsiasi bottiglia per realizzare in tempo reale un filamento adatto alle più varie stampanti 3D presenti oggi sul commercio, in modo da diminuire il volume di rifiuti e di nuovo filamento acquistato.
La realizzazione, la statua di Nelson Mandela.
La costruzione della statua parte da lontano, con i primi prototipi stampati in scala ridotta dell’opera, per verificare le ipotesi progettuali teoriche. Un primo modello stampato in un unico pezzo in scala 1:12 circa, è servito per verificare la correttezza della scansione 3D, nella sua interezza e nei suoi dettagli. La scansione è stata scaricata tra le tante disponibili sulla piattaforma web Scan the world e ha necessitato solo di qualche piccola correzione mediante l’uso degli applicativi Autodesk Meshmixer e Netfabb, per migliorare alcuni dettagli e correggere piccole porzioni di statua che risultavano incomplete o errate. Una seconda stampa in scala ridotta, circa 1:3, è servita per verificare la fattibilità della costruzione a partire dai 230 pezzi a incastro ottenuti con il software Luban3D. Lo stesso applicativo è stato usato per realizzare gli incastri tra i diversi pezzi adiacenti, in modo che a reggere la struttura della figura non fosse solo lo strato di colla interposto tra le diverse facciate lisce dei singoli pezzi, ma che ci fossero delle spine a incastro a coadiuvare nel distribuire lo sforzo statico. Verificata la fattibilità dell’opera, è iniziato il vero e proprio lavoro di costruzione.
Le ore totali stimate dal software di modellazione 3D per la stampa dei 230 componenti della statua in scala 1:1 [circa 185 cm di altezza] consistevano in 2.243 ore, cioè circa 94 giorni di funzionamento ininterrotto di una stampante. Per ovviare a questa difficoltà logistica sono state opzionate diverse strategie, necessarie anche al raggiungere il maggior coinvolgimento sociale della community locale e mondiale dei fablab e più in generale della community dei makers:
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aumentare il numero di stampanti in funzione contemporaneamente presso la sede principale dell’evento;
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condividere con i diversi partecipanti al boot camp alcune parti da stampare presso la loro struttura da portare con sé nei giorni dell’evento;
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condividere l’appello di cooperazione anche con i partner esterni che non avrebbero presenziato all’evento, per dar modo loro di partecipare in una forma indiretta stampando i pezzi presso la loro struttura e recapitando il tutto via posta.
La strategia si è rivelata nel suo complesso abbastanza vincente; alcuni problemi di comunicazione e organizzazione tra i diversi partner coinvolti hanno creato diversi pezzi doppi, oppure non stampati con parametri adeguati alla costruzione finale, ma è stato possibile ovviare alle problematiche mediante la stampa in 3D dei pezzi interessati in loco, contemporaneamente alle fasi di costruzione e assemblaggio della statua. La natura sociale della stampa avrebbe necessitato di uno strumento gestionale di maggior efficacia. Tale bisogno poteva essere soddisfatto con diverse soluzioni: un semplice foglio excel condiviso via web o l’impiego di applicazioni gestionali più specifiche per il lavoro cooperativo, sulla falsariga del più conosciuto Trello.
Le ore totali stimate dal software di modellazione 3D per l’assemblaggio dei 230 componenti della statua in scala 1:1 [diventati 240 per la divisione di alcuni pezzi in più parti a causa dei limiti di stampa di alcuni dei macchinari utilizzati dai partner esterni] consistevano in 14 ore, nella realtà è stato impiegato molto più tempo. Il team iniziale composto da due persone, ha realizzato in 14 ore la testa, le due braccia e le due gambe; con l’aggiunta di altre due persone nel team sono state assemblate in 13 ore la parte superiore del corpo, suddivisa in tre fasce, e l’assemblaggio finale di tutte le porzioni del corpo. In particolare la porzione relativa al busto è stata molto difficoltosa a causa della presenza delle spine di incastro anche sull’asse orizzontale della statua, che hanno creato in alcuni pezzi adiacenti incastri complessi formati da tre o più incastri, da dover obbligatoriamente gestire in maniera singola e con un ordine preciso per la buona riuscita dell’assemblaggio. Tale problematica poteva essere evitata con diverse soluzioni: una maggiore azione di correzione sugli incastri creati automaticamente dal software durante la fase iniziale di prototipazione, mediante l’impiego di incastri di natura più semplice nelle parti sovrapposte lungo il solo asse verticale e quindi aiutati dalla forza peso gravitazionale nella loro staticità o optare per una struttura cava della statua, sicuramente di minore impatto mediatico e concettuale, ma composta da un numero di pezzi decisamente inferiore.
Superate le difficoltà mediante la cooperazione tra i componenti stretti del team, mediante il coinvolgimento degli altri makers partecipanti al boot camp, mediante una più attenta coordinazione delle parti coinvolte e grazie all’entusiasmo percepito tra i componenti del team e in tutto l’evento, la realizzazione della statua è stato un vero e proprio successo. L’impatto mediatico della fase iniziale di condivisione, della fase intermedia di realizzazione e della fase finale del boot camp con con il fissaggio dell’ultimo elemento della statua, la testa, da parte dell’ospite principale è stato elevato e ha rispettato le aspettative prefissate dalla fase creativa del progetto.
L’unico neo social al quale in molti hanno pensato solo una volta finita la statua è riassumibile nella seguente frase:
“Non avete fatto un video da mettere in timelapse delle 27 ore di costruzione?”
La prossima volta faremo anche questo. Siamo già tutti d’accordo.
Il rientro, le basi per il futuro.
L’esperienza del boot camp in Torres Vedras mi ha dato modo di riflettere e immaginare cosa si potrebbe fare presso la nostra struttura, cercando di simulare i punti di forza e correggere quelli deboli. La formula dell’evento a spot è vincente per la sua capacità di concentrare più soggetti differenti in un unico luogo in un unico lasso di tempo. Le criticità dell’esperienza portoghese sono state: il poco efficace coinvolgimento delle piccole e medie realtà locali e la poca diffusione sul e del territorio limitrofo; la limitata realizzazione di prodotti concreti per la struttura e per il territorio che fossero tangibili, fruibili e vivibili anche da esterni ed estranei al bootcamp, esclusa la riproduzione della statua di Nelson Mandela che comunque è rimasta vincolata allo spazio interno.
Immagino un boot camp in quel di We Do Fablab, che oltre a raccogliere interesse, partecipazione e nomi di makers conosciuti mediante gli Erasmus o ancora da conoscere mediante il web, sia anche un focolare attorno al quale si possano raccogliere piccoli e medi makers presenti nel territorio, con le loro creazioni da esporre, spiegare, condividere e vendere. Si potrebbe, per esempio, dedicare uno spazio “maker market” durante la giornata conclusiva del boot camp, in modo da abbattere completamente il muro che separa il laboratorio 2.0 dal pubblico esterno ed estraneo.
Immagino un boot camp in quel di We Do Fablab, che oltre a riunire makers interessati alla propria formazione e alla creazione di “roba da nerd”, si pongano e riescano a raggiungere l'obiettivo di creare oggetti, spazi, sistemi, grafiche, mobili e svariate idee concrete o concretizzabili. La parola d’ordine sarebbe site specific, per lo spazio ospitante o per la città nel quale esse è incastonato. Il risultato del boot camp devono essere reali implementazioni, utili all’urbs e alla civitas del We Do Fablab o landmarks nel territorio che rimandino a esso.
Apice del boot camp diverrebbe quindi la giornata conclusiva. Durante essa si alternerebbero eventi, legati alle giornate di lavoro o slegate da esse; speech dei formatori che vi hanno partecipato o di ospiti invitati per le loro competenze e per prendere visione di quanto si è prodotto, commentarlo e condividerlo; momenti di svago e di affari, dando modo alla città di vivere lo spazio e i suoi abitanti e allo spazio di esser vissuto da vecchi e nuovi abitanti, ora o in futuro. La giornata conclusiva diverrebbe il momento della narrazione del boot camp stesso, con l’intento di creare, indipendentemente dal tuo ruolo, “a place to be”.
Segue il "diario di bordo" sotto forma di report grafico:
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